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Fashion Retail & CX:
quando i dati non parlano la lingua del cliente

Abbiamo parlato con oltre 30 leader di settore, e il messaggio è chiaro: la tecnologia c’è, e spesso è di altissimo livello. Ma c’è un problema di fondo: manca un linguaggio comune che colleghi davvero l’intento del cliente ai Product Data. Il vero nodo non sono gli strumenti, ma il modo in cui li facciamo comunicare tra loro. Non si tratta di tecnologia sbagliata, ma di linguaggio.

Fashion Retail & CX: quando i dati non parlano la lingua del cliente
Scritto da Sarah McVittie
CEO, Mapp Fashion

La Customer Experience nel fashion non funziona come dovrebbe non perché manchino gli strumenti giusti, ma perché manca un modo chiaro e condiviso di far dialogare dati e persone. Durante il processo di integrazione tra Dressipi e Mapp, abbiamo parlato con oltre 30 leader di settore che operano nel Fashion Retail, provenienti da contesti diversi.
Se ci hai dedicato tempo e stai leggendo questo blog post, grazie… sai che ci stiamo riferendo anche a te.
Abbiamo raccolto tanti spunti, ma uno in particolare è emerso in modo quasi identico in ogni conversazione: il fashion non è a corto di creatività, né di tecnologia. E i dati non mancano, anzi, spesso sono troppi.

Molti retailer hanno già fatto replatforming, investito in soluzioni avanzate per search & merch, CDP, PIM, attribuzione e non solo.
Sulla carta, l’infrastruttura tecnologica è perfetta. Eppure, nonostante tutto questo, le performance eCommerce sono ancora piatte. Anzi, ad analizzarle meglio, non si sono mosse più di tanto da quando abbiamo lanciato Dressipi, ormai oltre dieci anni fa.

Allora dove sta davvero il problema?

Quello che sta accadendo è un tipico caso di ottimizzazione senza integrazione:

  • i team di merchandising classificano i prodotti in base a materiali o occasioni d’uso;
  • le CDP segmentano i clienti secondo frequenza e recency d’acquisto (ottimo per i report, ma molto meno per creare esperienze rilevanti);
  • gli attributi di prodotto vengono spesso inseriti a mano da team junior, senza una logica condivisa né coerenza.

Ogni sistema risolve un pezzetto del puzzle, ma nessuno parla davvero con l’altro.
E il risultato si vede: un customer journey che appare frammentato, incoerente, costruito a compartimenti stagni. E no, non si tratta propriamente di quel tipo di “mix & match” che funziona.

Apri qualsiasi eCommerce di moda e ti imbatterai in qualcosa del genere:

  • griglie infinite di prodotti ordinati secondo logiche di magazzino;
  • ricerche che vanno in tilt appena provi a essere un po’ più specifico;
  • raccomandazioni che sembrano dire “Altri hanno comprato questo” più che “Questo è perfetto per te”.

Il momento della scoperta, che dovrebbe essere emozionante, spesso diventa faticoso, confuso, a volte un vicolo cieco. Il punto è che ci siamo dimenticati che l’acquisto di un capo di moda è prima di tutto un’esperienza emotiva, non tecnica.

In negozio, puoi dire a un’assistente: “Mi serve qualcosa di elegante (ma non troppo sexy) per un matrimonio in Toscana, a giugno.” E molto probabilmente lei capisce subito cosa intendi. Online, quel linguaggio così umano va perso. Le persone non cercano con codici prodotto, ma cercano con emozioni, momenti, sensazioni. Vogliono sentirsi capite. Non filtrate, né tantomeno incasellate. E invece si ritrovano davanti a menù a tendina, opzioni generiche e un’esperienza che somiglia più a un quiz che a uno shopping intuitivo.

E gli effetti iniziano a farsi sentire:

  • i resi sono aumentati del 13% rispetto al 2021;
  • i tassi di conversione restano fermi tra il 2 e il 3%;
  • le vendite a prezzo pieno faticano a superare il 60% (quando va bene).

Il nostro approccio

La Customer Experience nel fashion retail è compromessa da un problema di linguaggio. La maggior parte dei Product Data è ancora pensata per la logistica, non per lo stile, e manca delle sfumature necessarie per rappresentare come le persone davvero comprano i capi di moda. Sono dati costruiti per far muovere i prodotti nei magazzini, non per farli emergere agli occhi del cliente. Parlano il linguaggio dei codici e delle categorie, ma non quello delle emozioni, delle occasioni d’uso o delle intenzioni d’acquisto.

Quindi, non si tratta di fare un altro replatforming, ma di ripensare la logica che sta alla base della tua tecnologia. Ciò di cui il settore ha davvero bisogno è un livello semantico: una tassonomia condivisa che non sia solo per i merchandiser o i fornitori di CDP, ma che parli direttamente al cliente.

Non solo categoria, colore, taglia e scollo, ma anche occasione, stile, vestibilità, movimento, emozione.

Attribuzione dei dati

Quando i tuoi dati parlano la stessa lingua del cliente, tutto comincia a incastrarsi:

  • la ricerca funziona come dovrebbe;
  • le raccomandazioni diventano effettivamente personalizzate;
  • i customer journey generano davvero conversioni;
  • il numero dei resi inizia a diminuire.

Una delle riflessioni più comuni che abbiamo sentito negli ultimi mesi è stata: “Abbiamo i prodotti giusti, ma non li abbiamo descritti nel modo in cui il cliente possa davvero comprendere.”

Questa è la conversazione che l'industria sta evitando

Il 21 e 22 maggio, all’e-P Summit di Firenze, metteremo al centro una domanda troppo spesso ignorata: “E se la leva più potente per personalizzazione, conversione e fidelizzazione non risiedesse nel tuo CRM, ma nei Product Data?”

Se la tua customer experience sembra un percorso frammentato, fatto di segnali che non si parlano, è il momento di ripensarla dalle fondamenta.

Maurizio Alberti, SVP Revenue @ Mapp, approfondirà questi temi durante lo speech: “The Why Behind the Buy: how to transform customer intent into personalized recommendations with Dressipi”

📍 Ti aspettiamo alle 14:50 presso l’Unicredit Theatre. Non mancare!

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